Lulù ha ancora negli occhi il rituale del compleanno
della giovane ragazza con le mani dipinte d’arancio dall’hennè e gli odori del mercato delle spezie, le mucche al pascolo lungo le strade deserte
della Cappadocia, terra dai vini forti e rossi.
Attraversano la sua mente i ricordi dei Caravanserai con dentro, alieni ed
estranei intrusi, i distributori di Coca
Cola, del paesino di Göreme con i suoi bambini vocianti e dei suoi camini di
fata, dei vitelli e delle galline che corrono per i viottoli la mattina presto,
della zuppa di lenticchie profumata di menta; e Alì, Fatma, Selma, il vecchio
rattrappito fagiolo di cacao, deliziosi involtini di riso, vite e melanzane
viola brillante e molte altre storie e
persone.
La uno verde che li ha portati lì, in Turchia, attraverso
strade sterrate, lungo uno specchio d’autostrada infinita d’argento liquido, su
per tornanti e stradine a picco sul
mare, procede veloce verso sud.
Devono fermarsi qualche giorno, sono stanchi e hanno
voglia di riposo e di spiagge assolate.
Lulù cammina scalza.
Lulù cammina scalza nell’arancio del tramonto.
Lulù cammina scalza e porta un lungo abito attillato con
sottili spalline, un abito color della spiaggia turchese, puntinato di piccoli
fiori rossi.
Ha i capelli rasati a zero, una farfalla tatuata sul
braccio sinistro e va indolente verso il
centro del paese nel deserto del calar della sera.
E’ diretta
verso uno dei tavolini colorati
del Mavi bar, a Kaș , con la sua birra e la sua backed potato in mano.
Passeggia sul lungomare che a tratti assomiglia al Malecón
cubano assaporando la sua cena nel tramonto turco. Dopo qualche giringiro si
siede e ordina ad Alì il suo primo raki, una bevanda dal sapore dolciastro di
anice, simile al pastis francese o all’ouzu greco.
Il suo strano compagno di viaggio, Serge, è rimasto in stanza a rollarsi canne di
marijuana presa da un giovane americano, tale John, spedito con un calcio in
culo e un sacco di soldi, in giro per il mondo dal padre, che lo sovvenziona
nei suoi viaggi pur di non averlo tra i piedi per un po’.
Serge se ne sta lì, dunque, rintanato a leggere i suoi
libri sulle tradizioni ebraiche e a perdersi nel fumo.
Si sono fermati a Kaș a riposare per qualche giorno dopo
un lungo peregrinare per le strade saracene.
Di fianco a Lulù, al tavolino azzurro del Mavi bar, viene a sedersi un uomo. Un bell’uomo alto,
completamente rasato, abbronzato, con occhiali da professore e fisico da
atleta. La sua pelle è dorata dal sole.
Si chiama Peter, è olandese ma vive a Roma dove insegna.
Iniziano a chiacchierare e dopo qualche ora lei si
ritrova ad asciugare le sue lacrime.
La fidanzata, fotomodella di professione lo ha lasciato
per telefono e a Lulù non rimane che porgergli la sua piccola spalla tornita
per farlo sfogare.
Potrebbe andarsene, lasciarlo lì col suo dolore, ma non è
nella sua natura. Lei accoglie, consola, dona, è compassionevole e prova
empatia.
E’ una sorta di Madonna dannata.
Lulù non supera il metro e cinquantadue, ha forme
abbondanti, una vita sottile e grandi e liquidi occhi verde foglia ombreggiati
da lunghe ciglia nere.
Sono ali d’uccello le sue ciglia, che le svolazzano
intorno.
Lo guarda attentamente e con dolcezza, mentre lui si
asciuga le lacrime.
Piano piano Peter si calma e il raki comincia a fare
effetto ad entrambi.
Alì, il cameriere del Mavi bar, le getta occhiate di
fuoco. Anche lui è bello, ma di una bellezza più selvaggia, animalesca,
primitiva, ha lunghi capelli neri e un sorriso furbo, da felino.
Intanto cala la sera su quel paesino bianco di mare, tanto
simile ad alcuni luoghi in Puglia dove le case sono d’un chiarore abbagliate e
i fiori hanno colori e odori che stordiscono per la loro intensità.
Decidono di fare una passeggiata. Si tengono abbracciati,
lui è altissimo, lei senza scarpe gli
arriva a malapena all’altezza del petto.
I polsi e le caviglie esili di Lulù tintinnano al suono
di braccialetti d’argento e cavigliere coi campanellini.
Ogni tanto Peter lancia occhiate alla generosa scollatura
di lei che mette in mostra un seno sodo e abbondante.
E’ un essere sovrannaturale, Lulù, in quell’ambientazione
dove non ci sono donne in giro per la strada, ma solo uomini seduti fuori dalle
case a bere the e a fumarsi le ore del giorno
e della notte.
Quelle poche femmine che riesce a scorgere dietro alle
finestre indossano lo chador e sono coperte dalla testa ai piedi. Lavorano nei
campi, nelle piccole pensioni ma non le si vede mai. I loro mariti oziano e
parlano stretto stretto nella loro lingua lasciandosi scappare l’anima in lente
spirali di fumo.
Lulù le ha osservate il giorno prima farsi il bagno nel
mare, quelle donne, vestite come nere
alghe fluttuanti, solo gli occhi a distinguerle dagli scogli e dalle onde
scure.
Ogni tanto incontra qualche ragazza vestita all’occidentale,
studentesse che non hanno paura di baciarsi per strada, che fumano. Una di loro
si chiama Selma, le insegna qualche parola in turco, la istruisce sui numeri e
su come chiedere una birra.
Prova istintiva simpatia per lei e insieme passano alcune
ore in spiaggia chiacchierando in inglese.
L’olandese e la piccola Lulù arrivano all’anfiteatro
passando per il porto. Lei si lascia accompagnare docilmente da quello
sconosciuto.
E’ una notte senza luna. Il cielo è nero e profondo e
trapuntato di stelle che compaiono alla velocità della luce e
risplendono intensamente, centinaia, migliaia, milioni di stelle, come Lulù non
ne aveva mai viste.
Si siedono sui gradini di pietra antica dell’anfiteatro e
iniziano a toccarsi, a baciarsi.
Lui inizia a scoparsela lì, in quel luogo arcaico, tra le rovine della culla dell’umanità.
E’ violento, suda e sorride e a Lulù duole la schiena appoggiata
com’è al duro marmo.
Il suo è un fiore asciutto, dai petali chiusi, non sente
il calore irradiarsi né la rugiada bagnarlo.
Peter decide di portarla nel suo appartamento, un
bugigattolo diroccato e disordinato con un letto disfatto e calzini spaiati e
magliette sbiadite gettate ovunque.
Lei nota che il petto di Peter ha qualcosa di strano, ha
come dei rigonfiamenti. Non chiede niente, si lascia sbattere ancora. Lo
accarezza gentilmente sperando di riuscire ad avere un po’ di dolcezza.
Lulù non prova piacere, mai. Non sa perché permetta che
la prendano così. Non è la prima volta che le capita. E’ come se avesse sempre fame e non riuscisse mai a saziarsi.
Peter viene ululando dentro un preservativo XL, Lulù nota
la scatola sul comodino sgarrupato. Fortuna che è un ragazzo previdente, lei
non ci aveva proprio pensato alle precauzioni.
Interrompe il contatto fisico, lui.
E’ in bagno, si sciacqua. Lei rimane distesa e guarda le
crepe sul soffitto cercando di entrarci dentro come se fossero un varco spazio
- temporale.
Quando Peter torna la porta sul tetto del caseggiato dove
l’aria è fresca e dove la birra calda si mischia al raki.
Lulù decide che è ora di andare. Lei fa sempre così,
resta, si dona, si lascia consumare e poi senza chiedere nulla se ne va.
Scende le scale della notte e ritorna al Mavi bar. Alì
sta mettendo le sedie sui tavolini, è ora di chiusura. Lulù chiede un’altra
birra, lui gliela porta e nel suo inglese stentato le dice di aspettarlo.
E lei lo aspetta.
Il turco le piace, Lulù è attratta da quella bellezza
orientale, da quegli occhi di brace grandi e neri, d’un nero sfumato di grafite.
Si siede sul muretto del lungo mare e lo guarda mentre
chiude il locale. Lui ogni tanto le lancia occhiate boomerang, le getta gli
occhi addosso e poi se li riprende, e
sorrisi maliziosi, che le svolazzano intorno come pipistrelli o come falene.
La prende per mano e la porta sulla spiaggia di sassi.
La stende sul lettino, le sfila il vestito turchese e il
perizoma e mentre il mare rumoreggia forte lei soccombe sotto i colpi di Alì.
Una mareggiata è in corso, si è alzato un vento forte.
L’uomo sbatte contro di lei come le onde sulla battigia,
violento e fragoroso.
I suoi lunghi capelli scuri come piume di corvo le
coprono la faccia, le solleticano il petto nudo e ansante. Spruzzi d’acqua la
raggiungono, sente le gocce salate e fredde come ghiaccio sulle gambe nude.
L’uomo pensa al suo piacere, lei pensa alla risacca e
agli scogli color dell’ossidiana che riesce a scorgere da lontano incastonati
nel buio come neri diamanti.
Le viene dentro senza preamboli. Schizza forte, la
riempie, come lava bollente che erutta da un vulcano.
La mattina dopo Lulù lo vede alla spiaggia con la sua
fidanzata, si tengono per mano, non la saluta nemmeno.
Lulù sbatte gli occhi schiariti dal sole, sembrano pozze
di acquamarina appena appena increspati da un soffio di vento.
Occhi limpidi.
A guardaci dentro si potrebbe vedere il fondo sabbioso
della sua anima ferita.
Peter si stende accanto a lei e con le tempere le disegna
un arcobaleno sulla schiena. Lo chiama body painting. E’ strano come cambino le
persone alla luce del sole.
Il giorno le restituisce il sorriso gentile
dell’olandese, nascondendo l’animale della notte che l’aveva presa come un
leone da dietro, senza riguardi, senza umanità.
Lulù gli chiede del suo petto. Lui le spiega che ha
dovuto fare una mastectomia perché gli cresceva il seno. Può scorgere le
piccole cicatrici sotto i pettorali, le accarezza delicatamente quasi a volerle
cancellare.
Nel pomeriggio torna al Mavi bar, Alì la trascina a casa
sua. Lei si lascia portare.
Abita in una specie di soffitta di legno scuro che puzza
di chiuso, di sporco. La bocca del turco sa di medicinale, di colluttorio, è
appena stato dal dentista.
Glielo spiega a gesti.
La scopa di nuovo senza riguardi, le fa male questa
volta, e ancora la riempie del suo seme abbondante e appiccicoso, che
bianchiccio, scivola lungo le cosce offese di Lulù.
Lei chiede di farsi una doccia.
Lulù lavata dall’acqua.
Lulù purificata.
Lulù l’agnello sacrificale dal quale ripulire il sangue
offerto in sacrificio.
In sacrificio di cosa, poi, non lo saprà mai.
Quale colpa deve espiare?
Sotto la doccia costruita in maniera approssimativa,
osserva impietrita lo scarafaggio dal carapace nero e lucido che zampetta nello
sgabuzzino adibito a bagno.
Esce dalla tana di Alì quasi correndo con le lacrime che
le bruciano gli occhi.
Ha paura.
Ha paura di essere rimasta incinta.
Ha paura di essersi presa l’hiv.
Ha paura di se stessa e di quello che può fare quando le
ombre si impossessano di lei e le tolgono il raziocinio.
Lulù la pazza, Lulù l’incauta, Lulù la pecora nera della
famiglia, ribelle solo a se stessa.
Lulù è così, si lascia scopare per scacciare la paura e
poi ha paura di nuovo e si domanda perché si è lasciata scopare.
Lulù è una cagna gentile che si morde la coda.
Passa la serata in compagnia di parecchi raki, torna dal
suo compagno di viaggio, Serge,
protestante valdese gentile, dolce, simpatico.
Da lui non si lascia scopare, con la gentilezza Lulù non
si sa rapportare. E comunque Serge non ci ha provato neanche a farsela, la
rispetta forse, più probabilmente non è attratto da lei.
Lulù non ha una grande autostima e propende per la
seconda ipotesi.
Si stordiscono di canne, lui le insegna a capire Singer,
le scrive una lista di libri da leggere, discutono di politica e di soldatini
di piombo dipinti a mano e decidono che il mattino dopo sarebbero ripartiti
seguendo le ultime tappe del loro piano di viaggio.
A Kaș Lulù lascia pezzi di se stessa disseminati lungo la
battigia.
Le sue mutandine leopardate, alcune perline sfilatesi da
una collanina che si è rotta durante l’amplesso con Alì, un orecchino con una
piuma turchese.
Le donne ottomane, con i loro immensi veli neri,
impegnate a preparare, su pietre roventi appetitosi Gözleme di prezzemolo e
formaggio di capra, troveranno questi segni, questi cocci, queste schegge,
questi frammenti di Lulù, disseminati sulla spiaggia .
Una canzone si spande nell’aria:
“Balla
balla
signorina nella notte
nella
carovana che è passata
c'eran
tante collanine rotte
dalle
botte
della
vita.
Scappa
via da questa gente consumata
dalla
gabbia della madre e la puttana
c'è
una porta per tornare ancora indietro
piccolina
signorina
… “
A casa, in Italia, Lulù si porterà in regalo i condilomi
presi da Alì.
Fortunatamente nessun’altra malattia venerea, né figli.
I colori, gli odori, i sapori della Turchia le rimarranno
per sempre nel cuore.
I camini di fata, la valle di Ihlara, la spiaggia
turchese, la torre di Galata, il ponte sul Bosforo, le piscine calcaree di
Pamukkale, i bambini sporchi e scalzi di Kayseri con le loro bilance in
mano per far pesare i turisti in cambio di poche monetine, la Moschea Blu,
resteranno per l’eternità impresse sulle foto che Lulù ha fatto durante quel
mese in Turchia.
Ricorderà a lungo
l’hammam di Pergamo dove un uomo risecchino come un fagiolo di cacao la
massaggiò con la forza d’un lottatore di wrestling usando federe di cuscini, le
nascoste grotte scavate nella roccia con le raffigurazioni bizantine a cui i
musulmani avevano grattato via gli occhi.
…. Alcune volte ci
pensa, vorrebbe poter grattare via anche lei certe cose dal suo cuore, ma le
rimane sempre tutto attaccato addosso per quanto ci provi a lavarsi via
l’anima.
La sepolta testa di Medusa nella Cisterna Basilica di Instabul, l’Harem con le armature dei Giannizzeri, i
gioielli delle concubine del Sultano, i tralci di vite e gli involtini di riso
e melanzane le ritornano in mente durante la traversata burrascosa sul ponte
della nave, mentre mangia carne in scatola
nascosta dentro il sacco a pelo, di fianco al suo strano compagno di
viaggio che in un mese l’ha vista distruggersi senza mai dire una parola, senza
mai giudicarla, cercando di infonderle cultura e serenità.
Una foto mossa le rimane di quei volti della spiaggia di
Kaș.
Ogni tanto Lulù la guarda.
Nell’istantanea Peter guarda Alì che sorride
all’obbiettivo, Selma si sbraccia dietro di loro.
Lulù, sta facendo lo scatto. Ricorda che ha preparato lei
l’inquadratura e ha ritratto il momento in cui tutti si stavano muovendo
creando nella foto luminose strisce colorate. Una foto psichedelica d’una
estate psichedelica.
Del resto ognuno è andato poi per la sua strada.
E’ una creatura strana Lulù, si dà, si concede, si lascia
usare, si spreca e sorride, d’un sorriso triste e dolente.
A volte piange, ma continua a vivere, andando avanti,
andando oltre.
Ayse
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