Gli stimoli mi fanno male, mi resuscitano dalla morte apparente come uno zombi affamato di carne e cervello e brandelli di vita, sedata a tempo pieno di gocce d'oblio e tavernello muoio educatamente, senza disturbare, appassisco e mi spoglio di vecchi petali rosa antico, raggrinziti e rugosi, le api stanno lontano dal puzzo di marcio e di inerzia, resto uno stelo sferzato dal vento che si piega e non si spezza ma è infilzato sempre lì, le radici incatenate ingiallite e marce mentre vita mi vola addosso spettinandomi e frugandomi in testa mischiando vecchie istantanee e mozziconi di sigaretta (F.B.)
LO QUE ME GUSTA
Julio Cortàzar -
lunedì 5 ottobre 2020
martedì 28 luglio 2020
mercoledì 16 ottobre 2019
mercoledì 17 luglio 2019
venerdì 4 gennaio 2019
ECCOCI QUA ...
... come diceva il buon Vinicio in "E allora mambo".
Diventiamo grandi, ogni anno di più, facciamo bilanci, tiriamo le somme, disfiamo gli alberi e riempiamo le calze, di caramelle e di ciccia.
Non è cambiato niente dal 31 dicembre al 1 gennaio, almeno, non per noi.
Per fortuna, mi viene da dire.
La mia paura è che in realtà, sotto sotto, stia cambiando davvero qualcosa e non in meglio.
Resto a guardare e a sperare.
La mia routine è sempre la stessa ma forse lo pensavano molte persone prima che il mondo cambiasse definitivamente all'inizia della seconda guerra mondiale.
Staremo a vedere, e a sperare.
F.B.
Diventiamo grandi, ogni anno di più, facciamo bilanci, tiriamo le somme, disfiamo gli alberi e riempiamo le calze, di caramelle e di ciccia.
Non è cambiato niente dal 31 dicembre al 1 gennaio, almeno, non per noi.
Per fortuna, mi viene da dire.
La mia paura è che in realtà, sotto sotto, stia cambiando davvero qualcosa e non in meglio.
Resto a guardare e a sperare.
La mia routine è sempre la stessa ma forse lo pensavano molte persone prima che il mondo cambiasse definitivamente all'inizia della seconda guerra mondiale.
Staremo a vedere, e a sperare.
F.B.
martedì 6 novembre 2018
Pasta Di Pane
Penso che i corpi delle persone che fanno l'AMORE ad un certo punto perdano la loro fisicità, penso che si fondano e si mescolino come un impasto, si amalgamano e si mischiano diventando morbidi, malleabili, soffici, setosi, si manipolano a vicenda sprigionando fragranze ancestrali di grano e di acqua e di sole e di sale e si danno la forma che più gli piace, si scaldano si cuociono, si infornano e si mangiano a in un estasi di gusto e di voluttà ...quando fanno l'AMORE i corpi delle persone che si amano si fanno pane.
Ayse (F.B.)
Ayse (F.B.)
giovedì 11 ottobre 2018
BIGIO BIGIORE
Tutto questo “Bigiore” in questa nuova stagione della mia
vita, incredibilmente non mi disturba.
Pare che adesso la mia anima, anziché dover vagare per
cercare colore, ce l’abbia dentro, una tavolozza variopinta.
Gialli, rossi, azzurri, neri lucidi e brillanti, esplosioni
di petunie, caldi marroni di caffè.
Ecco qua il mio nuovo autunno, che pare quasi una estate,
non me ne vogliate ma le “streghe” son tornate con nuove parole magiche e allegramente tragiche.
Stay tuned,
kiss
A.
venerdì 9 giugno 2017
GLI OCCHI DEL MELO
GLI OCCHI DEL MELO
Le ruote della bici girano sotto il
caldo di agosto battendo la stradina di campagna.
Il sole picchia impietoso e il giovane uomo
col cappello di paglia pedala allegramente, anche se sudato e affaticato.
Pedala senza meta nella polvere dello
sterrato.
La ragazza nella sua vestina azzurra
s’aggira scalza per la cucina fresca d’ombra, facendo tintinnare i campanellini
della cavigliera che le adorna il collo del piede; i muri crepati, umidi e odorosi d’intonaco
vecchio le fanno da cornice.
Indaffarata rompe uova di gallina appena
raccolte e mescola zucchero e farina in
una terrina.
Danza attorno al tavolo accennando passi
di ballo ispirata dall’allegra musica della radiolina a pile che trasmette
canzonette.
Distrattamente butta l’occhio nel cesto
della frutta: una sola mela. Non potrà mai bastare per la sua torta.
Con le mani lucide di burro e profumate
di vaniglia e cannella, rigira il frutto rosso acceso e lo ammira.
La buccia è lucente e la forma è perfetta,
addenta la mela senza pensarci due volte.
E’ sugosa e dolcissima e un rivolo di
succo zuccherino le cola sul mento.
Se lo asciuga col dorso della mano,
distrattamente, e continua con piccoli morsi voraci a mangiarla.
Si scosta una ciocca di capelli neri dalla
fronte e rimira il torsolo della mela che soppesa con un’ espressione assorta.
Non sarebbe comunque stata sufficiente,
dovrà andare nel frutteto ed arrampicarsi sul ramo del melo per prendere altri
frutti così da poter procedere con la preparazione della torta.
Esce nella canicola senza curarsi di
mettere le scarpe ai piedi, la campagna è la sua casa, non ha di certo remore a
sporcarsi di erba e di terra.
Il caldo rovente del primo pomeriggio la
investe, quasi subito minuscole goccioline di sudore le imperlano la fronte e il
collo, il vestitino dai bottoncini slacciati
le si incolla al petto.
Fischiettando, il ragazzo in bici percorre la strada senza
meta e senza pensieri, lasciando vagare lo sguardo oltre i campi di grano,
verso la remota casa di campagna che si profila all’orizzonte.
La canna da pesca è legata al
portapacchi, inutilizzata.
Non ha avuto voglia d’arrivare fino al
fiume per pescare.
Forse al bar in piazza avrebbe trovato
qualcuno per giocare una partita a carte e bere un bicchier di vino.
Il melo nel frutteto allarga la sua
chioma verde brillante e distende i suoi rami appesantiti e carichi di frutti.
Alcuni sono ancora indietro, altri sono
già pronti per essere colti.
Agilmente la ragazza si arrampica
sull’albero abbracciandolo affettuosamente e appoggiando i piedi ai piccoli
rigonfiamenti nodosi della corteccia. Per un attimo perde la presa e per non
cadere si graffia un ginocchio sul tronco.
Arriva con fatica e ansimante a sedersi
sul ramo più basso e più grosso.
S’asciuga la fronte con un fazzolettino
bianco che tira fuori da un taschina sul petto.
Si sistema più comoda lasciando
penzolare le gambe nell’aria afosa del pomeriggio. L’uomo in bici da lontano
scorge la giovinetta intenta nelle sue
manovre d’arrampicatrice e incuriosito s’appresta ad avvicinarsi di più
spostandosi sul ciglio della strada per non farsi notare.
Non sarebbe affatto simpatico farsi cogliere nell’atto di sbirciare giovani
donne ignare, non foss’altro che per scacciare la noia d’un lento pomeriggio
d’agosto.
La ragazza sta cogliendo le mele più
mature e profumate e le sta mettendo nelle ampie tasche del vestito che con il
peso dei frutti si fa sempre più scollato rivelando il solco tra i piccoli seni
sodi e perfetti.
Ora la può vedere più che bene, ma non è
ancora soddisfatto d’aver colto quella visione.
Getta la bici a terra e quatto quatto
s’avvicina al frutteto camminando rasente al muretto di pietra per non farsi
vedere.
Ormai è vicinissimo, forse a poco più
d’un metro dal melo e riesce a scorgere il baluginio della cavigliera della
ragazza, riesce perfino a vedere lo smalto rosa un po’ sbeccato sulle unghie
dei suoi graziosi piedi sporchi di terra.
Si sente un ladro a rubare quelle
immagini ma non può farne a meno, è incantato e la vergogna per quello che sta
facendo lo fa sentire ancora più eccitato. Sente l’adrenalina scorrergli sotto
pelle e renderlo audace. La sua testa fa capolino da dietro il muretto. I suoi
occhi avidi e indiscreti si concentrano sui particolari. La ragazza con le
tasche piene di mele ha un ginocchio sbucciato, ma non se ne cura. Riesce a
vedere le macchie di azzurro cielo più
scure dove il sudore le inzuppa il vestitino senza maniche. Può vedere persino
il sudore sopra al labbro superiore e godere della forma stupenda di quella
bella bocca semichiusa, intenta a respirare l’afa.
Riesce quasi a sentire l’odore della sua
pelle dorata dal sole.
E’ talmente rapito da quello che vede
che quasi non si rende conto della prepotente erezione che gli gonfia i calzoni
di tela.
Non s’accorge che sta ondeggiando il
bacino quasi a simulare un amplesso con quella strabiliante visione d’azzurro e
di pelle sudata.
Gli muore il cuore in gola quando la ragazza comincia la discesa
dall’albero e un lembo dell’abito le sì’impiglia in un ramo sollevandole la
gonna e mostrando scorci di cosce perfette e
le piene mezze lune del didietro
vestite solo d’un minuscolo paio di mutandine rosa chiaro.
Ha l’impressione che gli si sia acuita
la vista, che abbia acquistato un super potere tanto da rimanere stupito di
riuscire a vedere i minuscoli fiorellini rossi stampati sugli slip che nella
discesa le si sono infilati tra le natiche.
Ora è ben conscio dell’urgenza che gli
pesa tra le gambe e che tira prepotente.
Si strofina l’uccello con una mano
infilata nella tasca dei calzoni. Si spaventa per un attimo quando la vede far
svolazzare lo sguardo nella sua direzione e ritira la testa dietro il muretto,
quasi fosse una tartaruga.
La ragazza ha l’impressione di non
essere sola, si sente osservata ma in giro non vede nessuno, solo qualche
uccellino svogliato e una colonna di formiche che operosamente marciando tra la
terra e i sassi del frutteto. Si tranquillizza, e soddisfatta del suo bottino
decide di rilassarsi un pochino a godersi la frescura dell’ombra del grande
melo, sedendosi a terra con la schiena appoggiata al suo solido tronco.
Leva le mele dalle tascone dell’abito e
le posa in un cestino di vimini.
Il ragazzo ritrova il coraggio di
sporgere la testa per mangiare di nuovo la visione della ragazza , affamato
d’altri scorci di estasi. Intanto dentro di lui continua la lotta tra la
vergogna e la voglia, tra il pudore e la perversione.
La spia ora, mentre lei s’allunga
mollemente con le ginocchia appena dischiuse a mostrare un triangolino di
stoffa rosa tra le gambe mentre rilassata e serena, segue il volo d’un ape che
le ronza pigra intorno alla testa. Fantastica immaginando che l’insetto sia
attratto dal profumo dei capelli della fanciulla che pensandoli profumati di
miele o di mandorle.
La ragazza apre gli occhi all’improvviso,
lui ha timore d’essersi fatto scoprire, sente profonde spine di paura trafiggergli la nuca, le
braccia cominciano a formicolargli e s’immobilizza come fosse di pietra, senza
neppure respirare.
Non vuole che finisca questo momento
magico, davvero non può finire così, con l’umiliazione e la vergogna di farsi scoprire
e senza più la possibilità di godersi quello spettacolo.
Rimane invece a bocca aperta quando la
vede guardarsi intorno con circospezione, alzarsi lentamente e girare intorno all’albero,
nascondersi un poco alla visuale ma non del tutto.
Gli mostra il fianco.
Vede poi che si solleva la vestina e si
cala le mutandine per poi accosciarsi sui talloni. Scorge il ginocchio
sbucciato e l’elastico degli slip che si tende sulle caviglie e non può credere
ai suoi occhi.
Un rivolo si forma tra le gambe di lei e
corre in discesa verso di lui, quasi a volerlo raggiungere, quasi ci fosse
davvero una via di comunicazione tra loro nonostante lei sia ignara della sua
presenza.
L’urina arriva fino al suo nascondiglio
dietro il muretto e lui la guarda stupefatto, facendo danzare gli occhi un po’
sulla ragazza e un po’ su quella magica scia liquida.
Non riesce a contenersi, sente
prepotente l’orgasmo inzuppargli i calzoni e trattiene a stento un lamento
dolente che resta muto e inchiodato,
incatenato dentro il suo petto.
Torna a nascondersi dietro il muretto e
si siede esausto contro la pietra bollente ansimando, sudato e sporco del suo
sperma, pieno di vergogna e di umiliazione, e pieno di immagini eccitanti e
rubate che per parecchie notti affolleranno le sue fantasie.
Ingredienti
700 g di mele succose
2 uova
200 g di zucchero
200 g di farina
100 g di morbido burro
la scorza e il succo di 1 limone profumato
200 ml di latte
1 bustina di lievito in polvere
Cannella in polvere ( un cucchiaino)
1 pizzico di sale
1 bacca di vaniglia
Preparazione
Sbucciate dolcemente le mele, levate il torsolo con l’apposito
attrezzo avendo cura di non ferire il frutto , tagliatele in quattro parti e
riducetele a fettine quindi mettetele
amorevolmente in un contenitore con il
succo del limone così da non far annerire le mele.
Frustate (con l’apposito strumento) le uova con lo zucchero ( precedentemente
miscelati con un cucchiaio di legno). Fate sciogliere il burro e unitelo al
composto così che facciano l’amore.
Unite a mano a mano tutti gli altri ingredienti, la scorza del limone e la cannella , il latte, la bustina di lievito, la bacca di vaniglia profumata, ¼ di cucchiaino di sale (che non guasta mai) e per ultima versate a pioggia ( purtroppo non dorata) la farina e mescolate molto bene.
Unite a mano a mano tutti gli altri ingredienti, la scorza del limone e la cannella , il latte, la bustina di lievito, la bacca di vaniglia profumata, ¼ di cucchiaino di sale (che non guasta mai) e per ultima versate a pioggia ( purtroppo non dorata) la farina e mescolate molto bene.
Otterrete così un composto omogeneo non
troppo liquido al quale andrete a unire le mele precedentemente sgocciolate dal
succo di limone in un’orgia di ingredienti.
Mescolate in modo da sparpagliare
allegramente le mele e subito dopo
imburrate ( sporcandovi pure le mani) e
infarinate una tortiera.
Versateci il composto, spolverizzando la
superficie di zucchero a velo misto a cannella e annusatene a lungo il profumo
cos’ da inebriare i vostri sensi.
Cuocete in forno a 180 gradi per circa
50-60 minuti, poi sfornate la torta di mele.
Servite la torta di mele spolverizzando
di nuovo la superficie con altro zucchero a velo misto a cannella.
Consigliamo di gustarla tiepida accompagnata
da un passito di Pantelleria.
Servite la torta di mele spolverizzando
di nuovo la superficie con altro zucchero a velo misto a cannella.
lunedì 23 maggio 2016
LA PUTTANA IGNIFUGA
Da qualche settimana ormai mi circonda, spavaldo.
Un amore multiforme, si perché amore è una parola bizzarra ma spesso si ripresenta, a volte con lettere maiuscole, a volte abbreviato, altre volte agghindato per un ballo in maschera, molte volte è a senso unico oppure è a tempo determinato, altre volte, come questa, ha la faccia come il culo.
E’ così che mentre sto ancora tentando di riemergere dalle vischiose paludi di un dolore devastante mi ritrovo questo ramo a forma di cazzo, che s’allunga verso le mie sabbie mobili, al quale riesco, non so come, ad aggrapparmi.
Ammicca seducente con la bocca sporca di rossetto, il mio, e fa tintinnare i suoi gioielli come campanelle, s’appoggia coi gomiti al bordo del finestrino e con 76 denti mi sorride: - ciao bella, vuoi compagnia? –
Una troia.
Intendiamoci, non è che sia proprio una storia alla Romeo e Giulietta ma quest’uomo non ha paura, s’avvicina alle fiamme della disperazione con sprezzo del pericolo , quasi sfottendo l’incendio e chissà come lo controlla.
Mi provoca, mi seduce, mi lusinga e mi desidera. E’ una puttana ignifuga, in sostanza.
Me lo immagino masturbarsi lentamente guardando una foto seppiata di me seduta sul cesso mentre fumo una sigaretta e sborrare sulla carta fotografica schizzandola di bianco, e l’effetto è lo stesso di quando ci si diverte a bruciare un foglio con il mozzicone di una sigaretta.
Piccoli cerchi con i bordi che s’allargano.
Ecco, lui mi fa allargare i bordi, mi fa uscire dai contorni quando disegno con le mie belle matite colorate e mi convince a non cancellare le sbavature. Si eccita con le mie imperfezioni e mi fa ridere, perché non è solo una puttana ignifuga, ma è anche un saltimbanco in tacchi a spillo e calze a rete.
Ora è lassù, in cima al trapezio e mi guarda intenso. M’invita con la mano a salire la scaletta e a raggiungerlo per volare in capovolte e salti tripli carpiati.
Stà lì con una catsuit di latex nera e si sta giocando le palle, sicuro com’è, che io m’aggrapperò ai suoi polsi per volteggiare sprizzando fiamme come una fenice che rinasce.
Eccolo che mi urla dall’alto: - ridi e piscia sul pubblico piccola incendiaria -.
Un amore multiforme, si perché amore è una parola bizzarra ma spesso si ripresenta, a volte con lettere maiuscole, a volte abbreviato, altre volte agghindato per un ballo in maschera, molte volte è a senso unico oppure è a tempo determinato, altre volte, come questa, ha la faccia come il culo.
E’ così che mentre sto ancora tentando di riemergere dalle vischiose paludi di un dolore devastante mi ritrovo questo ramo a forma di cazzo, che s’allunga verso le mie sabbie mobili, al quale riesco, non so come, ad aggrapparmi.
Ammicca seducente con la bocca sporca di rossetto, il mio, e fa tintinnare i suoi gioielli come campanelle, s’appoggia coi gomiti al bordo del finestrino e con 76 denti mi sorride: - ciao bella, vuoi compagnia? –
Una troia.
Intendiamoci, non è che sia proprio una storia alla Romeo e Giulietta ma quest’uomo non ha paura, s’avvicina alle fiamme della disperazione con sprezzo del pericolo , quasi sfottendo l’incendio e chissà come lo controlla.
Mi provoca, mi seduce, mi lusinga e mi desidera. E’ una puttana ignifuga, in sostanza.
Me lo immagino masturbarsi lentamente guardando una foto seppiata di me seduta sul cesso mentre fumo una sigaretta e sborrare sulla carta fotografica schizzandola di bianco, e l’effetto è lo stesso di quando ci si diverte a bruciare un foglio con il mozzicone di una sigaretta.
Piccoli cerchi con i bordi che s’allargano.
Ecco, lui mi fa allargare i bordi, mi fa uscire dai contorni quando disegno con le mie belle matite colorate e mi convince a non cancellare le sbavature. Si eccita con le mie imperfezioni e mi fa ridere, perché non è solo una puttana ignifuga, ma è anche un saltimbanco in tacchi a spillo e calze a rete.
Ora è lassù, in cima al trapezio e mi guarda intenso. M’invita con la mano a salire la scaletta e a raggiungerlo per volare in capovolte e salti tripli carpiati.
Stà lì con una catsuit di latex nera e si sta giocando le palle, sicuro com’è, che io m’aggrapperò ai suoi polsi per volteggiare sprizzando fiamme come una fenice che rinasce.
Eccolo che mi urla dall’alto: - ridi e piscia sul pubblico piccola incendiaria -.
Ayse
venerdì 13 maggio 2016
LE CARAMELLE DI PICASSO
Dormiamo ora e
sogniamo oscene e perverse scie di luce, sogniamo vicoli bui e lampioni rotti.
Non accettare
bon bon dagli sconosciuti, dicevano, ma tu non sei uno sconosciuto, forse.
Hai le tasche
piene di caramelle e allunghi la mano col palmo aperto, rivolto verso l’alto,
porgendomene tre.
Una per
me, una per te e una per le lacrime di coccodrillo.
Ingorda e
golosa, ecco come mi vuoi, perché hai visto come sono, diavolo tentatore, ed è
così che mi desideri, integra e disfatta, aderente ai miei neri pensieri come
un tubino elegante e sexy.
Allungo le
ciglia sporche di mascara per prendere la tua offerta zuccherina, mi circondi
la “Vita” e m’attiri a te.
Chi è il
goloso ingordo, adesso? Ora piove oro.
Si sciolgono i
bon bon e rimangono baci appiccicosi e scurrili, turpi.
Facciamo scempio
dei nostri corpi e poi li ricomponiamo come un puzzle.
Un seno a te, attaccato ad una mano, un cazzo a me in mezzo alla fronte a fottermi
il cervello ( concetto davvero troppo sfruttato ma che rende l’idea) un braccio
tuo al posto del mio così posso toccarmi con la tua mano, che lo sappiamo che
così è più bello, le tue labbra al posto
delle mie si baciano sbavando, siamo un
Picasso.
Chissà se
Pablo ci avrebbe dipinti così, oppure
come puttane, come le Damoiselle
d’Avignon.
Se te ne vai,
torna.
Portami di
nuovo i tuoi confetti e infilami in bocca cazzo e bon bon.
Perché niente
è osceno veramente e tutto diventa luce bagnata,
i capelli come zucchero filato me li puoi leccare con la lingua.
Non smettere
di sputare e di farmi mangiare le tue parole indecenti, volgari
e dolci come caramelle alla fragola.
Dormiamo ancora,
fino alla prossima volta, e sogniamo ora
oscene e perverse scie di luce
Ayse
martedì 5 aprile 2016
LULU'
Lulù ha ancora negli occhi il rituale del compleanno
della giovane ragazza con le mani dipinte d’arancio dall’hennè e gli odori del mercato delle spezie, le mucche al pascolo lungo le strade deserte
della Cappadocia, terra dai vini forti e rossi.
Attraversano la sua mente i ricordi dei Caravanserai con dentro, alieni ed
estranei intrusi, i distributori di Coca
Cola, del paesino di Göreme con i suoi bambini vocianti e dei suoi camini di
fata, dei vitelli e delle galline che corrono per i viottoli la mattina presto,
della zuppa di lenticchie profumata di menta; e Alì, Fatma, Selma, il vecchio
rattrappito fagiolo di cacao, deliziosi involtini di riso, vite e melanzane
viola brillante e molte altre storie e
persone.
La uno verde che li ha portati lì, in Turchia, attraverso
strade sterrate, lungo uno specchio d’autostrada infinita d’argento liquido, su
per tornanti e stradine a picco sul
mare, procede veloce verso sud.
Devono fermarsi qualche giorno, sono stanchi e hanno
voglia di riposo e di spiagge assolate.
Lulù cammina scalza.
Lulù cammina scalza nell’arancio del tramonto.
Lulù cammina scalza e porta un lungo abito attillato con
sottili spalline, un abito color della spiaggia turchese, puntinato di piccoli
fiori rossi.
Ha i capelli rasati a zero, una farfalla tatuata sul
braccio sinistro e va indolente verso il
centro del paese nel deserto del calar della sera.
E’ diretta
verso uno dei tavolini colorati
del Mavi bar, a Kaș , con la sua birra e la sua backed potato in mano.
Passeggia sul lungomare che a tratti assomiglia al Malecón
cubano assaporando la sua cena nel tramonto turco. Dopo qualche giringiro si
siede e ordina ad Alì il suo primo raki, una bevanda dal sapore dolciastro di
anice, simile al pastis francese o all’ouzu greco.
Il suo strano compagno di viaggio, Serge, è rimasto in stanza a rollarsi canne di
marijuana presa da un giovane americano, tale John, spedito con un calcio in
culo e un sacco di soldi, in giro per il mondo dal padre, che lo sovvenziona
nei suoi viaggi pur di non averlo tra i piedi per un po’.
Serge se ne sta lì, dunque, rintanato a leggere i suoi
libri sulle tradizioni ebraiche e a perdersi nel fumo.
Si sono fermati a Kaș a riposare per qualche giorno dopo
un lungo peregrinare per le strade saracene.
Di fianco a Lulù, al tavolino azzurro del Mavi bar, viene a sedersi un uomo. Un bell’uomo alto,
completamente rasato, abbronzato, con occhiali da professore e fisico da
atleta. La sua pelle è dorata dal sole.
Si chiama Peter, è olandese ma vive a Roma dove insegna.
Iniziano a chiacchierare e dopo qualche ora lei si
ritrova ad asciugare le sue lacrime.
La fidanzata, fotomodella di professione lo ha lasciato
per telefono e a Lulù non rimane che porgergli la sua piccola spalla tornita
per farlo sfogare.
Potrebbe andarsene, lasciarlo lì col suo dolore, ma non è
nella sua natura. Lei accoglie, consola, dona, è compassionevole e prova
empatia.
E’ una sorta di Madonna dannata.
Lulù non supera il metro e cinquantadue, ha forme
abbondanti, una vita sottile e grandi e liquidi occhi verde foglia ombreggiati
da lunghe ciglia nere.
Sono ali d’uccello le sue ciglia, che le svolazzano
intorno.
Lo guarda attentamente e con dolcezza, mentre lui si
asciuga le lacrime.
Piano piano Peter si calma e il raki comincia a fare
effetto ad entrambi.
Alì, il cameriere del Mavi bar, le getta occhiate di
fuoco. Anche lui è bello, ma di una bellezza più selvaggia, animalesca,
primitiva, ha lunghi capelli neri e un sorriso furbo, da felino.
Intanto cala la sera su quel paesino bianco di mare, tanto
simile ad alcuni luoghi in Puglia dove le case sono d’un chiarore abbagliate e
i fiori hanno colori e odori che stordiscono per la loro intensità.
Decidono di fare una passeggiata. Si tengono abbracciati,
lui è altissimo, lei senza scarpe gli
arriva a malapena all’altezza del petto.
I polsi e le caviglie esili di Lulù tintinnano al suono
di braccialetti d’argento e cavigliere coi campanellini.
Ogni tanto Peter lancia occhiate alla generosa scollatura
di lei che mette in mostra un seno sodo e abbondante.
E’ un essere sovrannaturale, Lulù, in quell’ambientazione
dove non ci sono donne in giro per la strada, ma solo uomini seduti fuori dalle
case a bere the e a fumarsi le ore del giorno
e della notte.
Quelle poche femmine che riesce a scorgere dietro alle
finestre indossano lo chador e sono coperte dalla testa ai piedi. Lavorano nei
campi, nelle piccole pensioni ma non le si vede mai. I loro mariti oziano e
parlano stretto stretto nella loro lingua lasciandosi scappare l’anima in lente
spirali di fumo.
Lulù le ha osservate il giorno prima farsi il bagno nel
mare, quelle donne, vestite come nere
alghe fluttuanti, solo gli occhi a distinguerle dagli scogli e dalle onde
scure.
Ogni tanto incontra qualche ragazza vestita all’occidentale,
studentesse che non hanno paura di baciarsi per strada, che fumano. Una di loro
si chiama Selma, le insegna qualche parola in turco, la istruisce sui numeri e
su come chiedere una birra.
Prova istintiva simpatia per lei e insieme passano alcune
ore in spiaggia chiacchierando in inglese.
L’olandese e la piccola Lulù arrivano all’anfiteatro
passando per il porto. Lei si lascia accompagnare docilmente da quello
sconosciuto.
E’ una notte senza luna. Il cielo è nero e profondo e
trapuntato di stelle che compaiono alla velocità della luce e
risplendono intensamente, centinaia, migliaia, milioni di stelle, come Lulù non
ne aveva mai viste.
Si siedono sui gradini di pietra antica dell’anfiteatro e
iniziano a toccarsi, a baciarsi.
Lui inizia a scoparsela lì, in quel luogo arcaico, tra le rovine della culla dell’umanità.
E’ violento, suda e sorride e a Lulù duole la schiena appoggiata
com’è al duro marmo.
Il suo è un fiore asciutto, dai petali chiusi, non sente
il calore irradiarsi né la rugiada bagnarlo.
Peter decide di portarla nel suo appartamento, un
bugigattolo diroccato e disordinato con un letto disfatto e calzini spaiati e
magliette sbiadite gettate ovunque.
Lei nota che il petto di Peter ha qualcosa di strano, ha
come dei rigonfiamenti. Non chiede niente, si lascia sbattere ancora. Lo
accarezza gentilmente sperando di riuscire ad avere un po’ di dolcezza.
Lulù non prova piacere, mai. Non sa perché permetta che
la prendano così. Non è la prima volta che le capita. E’ come se avesse sempre fame e non riuscisse mai a saziarsi.
Peter viene ululando dentro un preservativo XL, Lulù nota
la scatola sul comodino sgarrupato. Fortuna che è un ragazzo previdente, lei
non ci aveva proprio pensato alle precauzioni.
Interrompe il contatto fisico, lui.
E’ in bagno, si sciacqua. Lei rimane distesa e guarda le
crepe sul soffitto cercando di entrarci dentro come se fossero un varco spazio
- temporale.
Quando Peter torna la porta sul tetto del caseggiato dove
l’aria è fresca e dove la birra calda si mischia al raki.
Lulù decide che è ora di andare. Lei fa sempre così,
resta, si dona, si lascia consumare e poi senza chiedere nulla se ne va.
Scende le scale della notte e ritorna al Mavi bar. Alì
sta mettendo le sedie sui tavolini, è ora di chiusura. Lulù chiede un’altra
birra, lui gliela porta e nel suo inglese stentato le dice di aspettarlo.
E lei lo aspetta.
Il turco le piace, Lulù è attratta da quella bellezza
orientale, da quegli occhi di brace grandi e neri, d’un nero sfumato di grafite.
Si siede sul muretto del lungo mare e lo guarda mentre
chiude il locale. Lui ogni tanto le lancia occhiate boomerang, le getta gli
occhi addosso e poi se li riprende, e
sorrisi maliziosi, che le svolazzano intorno come pipistrelli o come falene.
La prende per mano e la porta sulla spiaggia di sassi.
La stende sul lettino, le sfila il vestito turchese e il
perizoma e mentre il mare rumoreggia forte lei soccombe sotto i colpi di Alì.
Una mareggiata è in corso, si è alzato un vento forte.
L’uomo sbatte contro di lei come le onde sulla battigia,
violento e fragoroso.
I suoi lunghi capelli scuri come piume di corvo le
coprono la faccia, le solleticano il petto nudo e ansante. Spruzzi d’acqua la
raggiungono, sente le gocce salate e fredde come ghiaccio sulle gambe nude.
L’uomo pensa al suo piacere, lei pensa alla risacca e
agli scogli color dell’ossidiana che riesce a scorgere da lontano incastonati
nel buio come neri diamanti.
Le viene dentro senza preamboli. Schizza forte, la
riempie, come lava bollente che erutta da un vulcano.
La mattina dopo Lulù lo vede alla spiaggia con la sua
fidanzata, si tengono per mano, non la saluta nemmeno.
Lulù sbatte gli occhi schiariti dal sole, sembrano pozze
di acquamarina appena appena increspati da un soffio di vento.
Occhi limpidi.
A guardaci dentro si potrebbe vedere il fondo sabbioso
della sua anima ferita.
Peter si stende accanto a lei e con le tempere le disegna
un arcobaleno sulla schiena. Lo chiama body painting. E’ strano come cambino le
persone alla luce del sole.
Il giorno le restituisce il sorriso gentile
dell’olandese, nascondendo l’animale della notte che l’aveva presa come un
leone da dietro, senza riguardi, senza umanità.
Lulù gli chiede del suo petto. Lui le spiega che ha
dovuto fare una mastectomia perché gli cresceva il seno. Può scorgere le
piccole cicatrici sotto i pettorali, le accarezza delicatamente quasi a volerle
cancellare.
Nel pomeriggio torna al Mavi bar, Alì la trascina a casa
sua. Lei si lascia portare.
Abita in una specie di soffitta di legno scuro che puzza
di chiuso, di sporco. La bocca del turco sa di medicinale, di colluttorio, è
appena stato dal dentista.
Glielo spiega a gesti.
La scopa di nuovo senza riguardi, le fa male questa
volta, e ancora la riempie del suo seme abbondante e appiccicoso, che
bianchiccio, scivola lungo le cosce offese di Lulù.
Lei chiede di farsi una doccia.
Lulù lavata dall’acqua.
Lulù purificata.
Lulù l’agnello sacrificale dal quale ripulire il sangue
offerto in sacrificio.
In sacrificio di cosa, poi, non lo saprà mai.
Quale colpa deve espiare?
Sotto la doccia costruita in maniera approssimativa,
osserva impietrita lo scarafaggio dal carapace nero e lucido che zampetta nello
sgabuzzino adibito a bagno.
Esce dalla tana di Alì quasi correndo con le lacrime che
le bruciano gli occhi.
Ha paura.
Ha paura di essere rimasta incinta.
Ha paura di essersi presa l’hiv.
Ha paura di se stessa e di quello che può fare quando le
ombre si impossessano di lei e le tolgono il raziocinio.
Lulù la pazza, Lulù l’incauta, Lulù la pecora nera della
famiglia, ribelle solo a se stessa.
Lulù è così, si lascia scopare per scacciare la paura e
poi ha paura di nuovo e si domanda perché si è lasciata scopare.
Lulù è una cagna gentile che si morde la coda.
Passa la serata in compagnia di parecchi raki, torna dal
suo compagno di viaggio, Serge,
protestante valdese gentile, dolce, simpatico.
Da lui non si lascia scopare, con la gentilezza Lulù non
si sa rapportare. E comunque Serge non ci ha provato neanche a farsela, la
rispetta forse, più probabilmente non è attratto da lei.
Lulù non ha una grande autostima e propende per la
seconda ipotesi.
Si stordiscono di canne, lui le insegna a capire Singer,
le scrive una lista di libri da leggere, discutono di politica e di soldatini
di piombo dipinti a mano e decidono che il mattino dopo sarebbero ripartiti
seguendo le ultime tappe del loro piano di viaggio.
A Kaș Lulù lascia pezzi di se stessa disseminati lungo la
battigia.
Le sue mutandine leopardate, alcune perline sfilatesi da
una collanina che si è rotta durante l’amplesso con Alì, un orecchino con una
piuma turchese.
Le donne ottomane, con i loro immensi veli neri,
impegnate a preparare, su pietre roventi appetitosi Gözleme di prezzemolo e
formaggio di capra, troveranno questi segni, questi cocci, queste schegge,
questi frammenti di Lulù, disseminati sulla spiaggia .
Una canzone si spande nell’aria:
“Balla
balla
signorina nella notte
nella
carovana che è passata
c'eran
tante collanine rotte
dalle
botte
della
vita.
Scappa
via da questa gente consumata
dalla
gabbia della madre e la puttana
c'è
una porta per tornare ancora indietro
piccolina
signorina
… “
A casa, in Italia, Lulù si porterà in regalo i condilomi
presi da Alì.
Fortunatamente nessun’altra malattia venerea, né figli.
I colori, gli odori, i sapori della Turchia le rimarranno
per sempre nel cuore.
I camini di fata, la valle di Ihlara, la spiaggia
turchese, la torre di Galata, il ponte sul Bosforo, le piscine calcaree di
Pamukkale, i bambini sporchi e scalzi di Kayseri con le loro bilance in
mano per far pesare i turisti in cambio di poche monetine, la Moschea Blu,
resteranno per l’eternità impresse sulle foto che Lulù ha fatto durante quel
mese in Turchia.
Ricorderà a lungo
l’hammam di Pergamo dove un uomo risecchino come un fagiolo di cacao la
massaggiò con la forza d’un lottatore di wrestling usando federe di cuscini, le
nascoste grotte scavate nella roccia con le raffigurazioni bizantine a cui i
musulmani avevano grattato via gli occhi.
…. Alcune volte ci
pensa, vorrebbe poter grattare via anche lei certe cose dal suo cuore, ma le
rimane sempre tutto attaccato addosso per quanto ci provi a lavarsi via
l’anima.
La sepolta testa di Medusa nella Cisterna Basilica di Instabul, l’Harem con le armature dei Giannizzeri, i
gioielli delle concubine del Sultano, i tralci di vite e gli involtini di riso
e melanzane le ritornano in mente durante la traversata burrascosa sul ponte
della nave, mentre mangia carne in scatola
nascosta dentro il sacco a pelo, di fianco al suo strano compagno di
viaggio che in un mese l’ha vista distruggersi senza mai dire una parola, senza
mai giudicarla, cercando di infonderle cultura e serenità.
Una foto mossa le rimane di quei volti della spiaggia di
Kaș.
Ogni tanto Lulù la guarda.
Nell’istantanea Peter guarda Alì che sorride
all’obbiettivo, Selma si sbraccia dietro di loro.
Lulù, sta facendo lo scatto. Ricorda che ha preparato lei
l’inquadratura e ha ritratto il momento in cui tutti si stavano muovendo
creando nella foto luminose strisce colorate. Una foto psichedelica d’una
estate psichedelica.
Del resto ognuno è andato poi per la sua strada.
E’ una creatura strana Lulù, si dà, si concede, si lascia
usare, si spreca e sorride, d’un sorriso triste e dolente.
A volte piange, ma continua a vivere, andando avanti,
andando oltre.
Ayse
martedì 29 marzo 2016
FRAGOLE
FRAGOLE
Era il compleanno di Anna e il suo regalo era quel viaggio tra le braccia di Giovanni. Stava andando al mare. Buttò in valigia il bikini giallo limone. Portò le sue corde rosse. Portò le fragole e le autoreggenti rosa a rete che aveva sognato di fargli indossare e le scarpe di pitone che aveva comprato in quel negozio per travestiti , sapendo che probabilmente non sarebbe mai riuscita a fargliele mettere. Era consapevole che l’accostamento tra calze a rete rosa e scarpe di pitone era ridicolo, ma l’aveva scelto apposta. Lui le aveva detto: per il tuo compleanno puoi farmi quello che vuoi , Anna. La stanza era assolata. L’uomo si fece legare. Glielo concesse nonostante il suo temperamento impetuoso e dominante. Sembrava docile e remissivo. Anna si perdeva nei ricami di cotone esplorando quel corpo perfetto di maschio. Un corsetto di corde cingeva il torace muscoloso e asciutto. Un semplice giro di corde ricamato sul torace, niente di contenitivo, niente che gli bloccasse braccia e gambe, queste erano state le sue condizioni e lei le aveva accettate. Lo fece sedere sulla sedia, di fronte alla finestra. Prese ad infilargli le calze. Percorreva quelle gambe lunghe e elettriche con studiata lentezza, per godersi quel momento. Era meraviglioso. Rimase nuda in controluce, davanti alla finestra, vestita del suo bikini giallo, a guardarlo. Nei suoi occhi scorse un scintilla, ma forse era solo un bagliore, un riflesso del sole sul vetro che baluginò sul volto dell’uomo. Si inginocchiò e si mise i piedi del maschio in grembo. Li carezzò con amore e gli infilò le scarpe di pitone. Il tacco era altissimo. Si sedette sulle sue ginocchia e iniziò ad imboccarlo con le fragole sporcandogli la faccia. La fica a contatto contro le sue cosce si bagnò. Cominciò a strusciarsi avanti e indietro sulla sua erezione, bagnadogli il cazzo con i suoi umori. Lo sentì fremere, non era così tranquillo come sembrava. Gli leccava le labbra , le guance, sporche di rosso. Una folata di vento spostò le tende, lei si distrasse. Lui si alzò di scatto e la costrinse a terra. Lei aveva commesso un errore fondamentale concedendogli la libertà di movimento.
La guardò con un sorriso divertito.
- Per il tuo compleanno, se vuoi, puoi leccare il tacco di queste scarpe, donna –
(Ayse)
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