LO QUE ME GUSTA


"Lo que me gusta de tu cuerpo es el sexo. Lo que me gusta de tu sexo es la boca. Lo que me gusta de tu boca es la lengua. Lo que me gusta de tu lengua es la palabra."

Julio Cortàzar -



martedì 5 aprile 2016

LULU'

Lulù ha ancora negli occhi il rituale del compleanno della giovane ragazza con le mani dipinte d’arancio dall’hennè e  gli odori del mercato delle spezie,  le mucche al pascolo lungo le strade deserte della Cappadocia, terra dai vini forti e rossi.
Attraversano la sua mente i ricordi dei  Caravanserai con dentro, alieni ed estranei intrusi,  i distributori di Coca Cola, del paesino di Göreme con i suoi bambini vocianti e dei suoi camini di fata, dei vitelli e delle galline che corrono per i viottoli la mattina presto, della zuppa di lenticchie profumata di menta; e Alì, Fatma, Selma, il vecchio rattrappito fagiolo di cacao, deliziosi involtini di riso, vite e melanzane viola brillante  e molte altre storie e persone.
La uno verde che li ha portati lì, in Turchia, attraverso strade sterrate, lungo uno specchio d’autostrada infinita d’argento liquido, su per  tornanti e stradine a picco sul mare,  procede veloce verso sud.
Devono fermarsi qualche giorno, sono stanchi e hanno voglia di riposo e di spiagge assolate.
Lulù cammina scalza.
Lulù cammina scalza nell’arancio del tramonto.
Lulù cammina scalza e porta un lungo abito attillato con sottili spalline, un abito color della spiaggia turchese, puntinato di piccoli fiori rossi.
Ha i capelli rasati a zero, una farfalla tatuata sul braccio sinistro e va indolente  verso il centro del paese nel deserto del calar della sera.
E’ diretta  verso  uno dei tavolini colorati del Mavi bar, a Kaș , con la sua birra e la sua backed potato in mano.
Passeggia sul lungomare che a tratti assomiglia al Malecón cubano assaporando la sua cena nel tramonto turco. Dopo qualche giringiro si siede e ordina ad Alì il suo primo raki, una bevanda dal sapore dolciastro di anice, simile al pastis francese o all’ouzu greco.
Il suo strano compagno di viaggio, Serge,  è rimasto in stanza a rollarsi canne di marijuana presa da un giovane americano, tale John, spedito con un calcio in culo e un sacco di soldi, in giro per il mondo dal padre, che lo sovvenziona nei suoi viaggi pur di non averlo tra i piedi per un po’.
Serge se ne sta lì, dunque, rintanato a leggere i suoi libri sulle tradizioni ebraiche e a perdersi nel fumo.
Si sono fermati a Kaș a riposare per qualche giorno dopo un lungo peregrinare per le strade saracene.
Di fianco a Lulù, al tavolino azzurro del Mavi bar,  viene a sedersi un uomo. Un bell’uomo alto, completamente rasato, abbronzato, con occhiali da professore e fisico da atleta. La sua pelle è dorata dal sole.
Si chiama Peter, è olandese ma vive a Roma dove insegna.
Iniziano a chiacchierare e dopo qualche ora lei si ritrova ad asciugare le sue lacrime.
La fidanzata, fotomodella di professione lo ha lasciato per telefono e a Lulù non rimane che porgergli la sua piccola spalla tornita per farlo sfogare.
Potrebbe andarsene, lasciarlo lì col suo dolore, ma non è nella sua natura. Lei accoglie, consola, dona, è compassionevole e prova empatia.
E’ una sorta di Madonna dannata.
Lulù non supera il metro e cinquantadue, ha forme abbondanti, una vita sottile e grandi e liquidi occhi verde foglia ombreggiati da lunghe ciglia nere.
Sono ali d’uccello le sue ciglia, che le svolazzano intorno.
Lo guarda attentamente e con dolcezza, mentre lui si asciuga le lacrime.
Piano piano Peter si calma e il raki comincia a fare effetto ad entrambi.
Alì, il cameriere del Mavi bar, le getta occhiate di fuoco. Anche lui è bello, ma di una bellezza più selvaggia, animalesca, primitiva, ha lunghi capelli neri e un sorriso furbo, da felino. 
Intanto cala la sera su quel paesino bianco di mare, tanto simile ad alcuni luoghi in Puglia dove le case sono d’un chiarore abbagliate e i fiori hanno colori e odori che stordiscono per la loro intensità.
Decidono di fare una passeggiata. Si tengono abbracciati, lui è altissimo, lei  senza scarpe gli arriva a malapena all’altezza del petto.
I polsi e le caviglie esili di Lulù tintinnano al suono di braccialetti d’argento e cavigliere coi campanellini.
Ogni tanto Peter lancia occhiate alla generosa scollatura di lei che mette in mostra un seno sodo e abbondante.
E’ un essere sovrannaturale, Lulù, in quell’ambientazione dove non ci sono donne in giro per la strada, ma solo uomini seduti fuori dalle case a bere the e a fumarsi le ore del giorno  e della notte.
Quelle poche femmine che riesce a scorgere dietro alle finestre indossano lo chador e sono coperte dalla testa ai piedi. Lavorano nei campi, nelle piccole pensioni ma non le si vede mai. I loro mariti oziano e parlano stretto stretto nella loro lingua lasciandosi scappare l’anima in lente spirali di fumo.
Lulù le ha osservate il giorno prima farsi il bagno nel mare,  quelle donne, vestite come nere alghe fluttuanti, solo gli occhi a distinguerle dagli scogli e dalle onde scure.
Ogni tanto  incontra qualche ragazza vestita all’occidentale, studentesse che non hanno paura di baciarsi per strada, che fumano. Una di loro si chiama Selma, le insegna qualche parola in turco, la istruisce sui numeri e su come chiedere una birra.

Prova istintiva simpatia per lei e insieme passano alcune ore in spiaggia chiacchierando in inglese.

L’olandese e la piccola Lulù arrivano all’anfiteatro passando per il porto. Lei si lascia accompagnare docilmente da quello sconosciuto.
E’ una notte senza luna. Il cielo è nero e profondo e trapuntato  di stelle che  compaiono alla velocità della luce e risplendono intensamente, centinaia, migliaia, milioni di stelle, come Lulù non ne aveva mai viste.
Si siedono sui gradini di pietra antica dell’anfiteatro e iniziano a toccarsi, a baciarsi.
Lui inizia a scoparsela lì, in quel luogo arcaico,  tra le rovine della culla dell’umanità.
E’ violento, suda e sorride e a Lulù duole la schiena appoggiata com’è al duro marmo.
Il suo è un fiore asciutto, dai petali chiusi, non sente il calore irradiarsi né la rugiada bagnarlo.
Peter decide di portarla nel suo appartamento, un bugigattolo diroccato e disordinato con un letto disfatto e calzini spaiati e magliette sbiadite gettate ovunque.
Lei nota che il petto di Peter ha qualcosa di strano, ha come dei rigonfiamenti. Non chiede niente, si lascia sbattere ancora. Lo accarezza gentilmente sperando di riuscire ad avere un po’ di dolcezza.
Lulù non prova piacere, mai. Non sa perché permetta che la prendano così. Non è la prima volta che le capita. E’ come se avesse  sempre fame e non riuscisse mai a saziarsi.
Peter viene ululando dentro un preservativo XL, Lulù nota la scatola sul comodino sgarrupato. Fortuna che è un ragazzo previdente, lei non ci aveva proprio pensato alle precauzioni.
Interrompe il contatto fisico, lui.
E’ in bagno, si sciacqua. Lei rimane distesa e guarda le crepe sul soffitto cercando di entrarci dentro come se fossero un varco spazio - temporale.
Quando Peter torna la porta sul tetto del caseggiato dove l’aria è fresca e dove la birra calda si mischia al raki.
Lulù decide che è ora di andare. Lei fa sempre così, resta, si dona, si lascia consumare e poi senza chiedere nulla se ne va.
Scende le scale della notte e ritorna al Mavi bar. Alì sta mettendo le sedie sui tavolini, è ora di chiusura. Lulù chiede un’altra birra, lui gliela porta e nel suo inglese stentato le dice di aspettarlo.
E lei lo aspetta.
Il turco le piace, Lulù è attratta da quella bellezza orientale, da quegli occhi di brace grandi e neri, d’un nero sfumato di grafite.
Si siede sul muretto del lungo mare e lo guarda mentre chiude il locale. Lui ogni tanto le lancia occhiate boomerang, le getta gli occhi addosso e poi se li riprende,  e sorrisi maliziosi, che le svolazzano intorno come pipistrelli o come falene.
La prende per mano e la porta sulla spiaggia di sassi.
La stende sul lettino, le sfila il vestito turchese e il perizoma e mentre il mare rumoreggia forte lei soccombe sotto i colpi di Alì.

Una mareggiata è in corso, si è alzato un vento forte.
L’uomo sbatte contro di lei come le onde sulla battigia, violento e fragoroso.
I suoi lunghi capelli scuri come piume di corvo le coprono la faccia, le solleticano il petto nudo e ansante. Spruzzi d’acqua la raggiungono, sente le gocce salate e fredde come ghiaccio sulle gambe nude.
L’uomo pensa al suo piacere, lei pensa alla risacca e agli scogli color dell’ossidiana che riesce a scorgere da lontano incastonati nel buio come neri diamanti.
Le viene dentro senza preamboli. Schizza forte, la riempie, come lava bollente che erutta da un vulcano.
La mattina dopo Lulù lo vede alla spiaggia con la sua fidanzata, si tengono per mano, non la saluta nemmeno. 
Lulù sbatte gli occhi schiariti dal sole, sembrano pozze di acquamarina appena appena increspati da un soffio di vento.
Occhi limpidi.
A guardaci dentro si potrebbe vedere il fondo sabbioso della sua anima ferita.
Peter si stende accanto a lei e con le tempere le disegna un arcobaleno sulla schiena. Lo chiama body painting. E’ strano come cambino le persone alla luce del sole.
Il giorno le restituisce il sorriso gentile dell’olandese, nascondendo l’animale della notte che l’aveva presa come un leone da dietro, senza riguardi, senza umanità.
Lulù gli chiede del suo petto. Lui le spiega che ha dovuto fare una mastectomia perché gli cresceva il seno. Può scorgere le piccole cicatrici sotto i pettorali, le accarezza delicatamente quasi a volerle cancellare.
Nel pomeriggio torna al Mavi bar, Alì la trascina a casa sua.  Lei si lascia portare.
Abita in una specie di soffitta di legno scuro che puzza di chiuso, di sporco. La bocca del turco sa di medicinale, di colluttorio, è appena stato dal dentista. 
Glielo spiega a gesti.
La scopa di nuovo senza riguardi, le fa male questa volta, e ancora la riempie del suo seme abbondante e appiccicoso, che bianchiccio, scivola lungo le cosce offese di Lulù.
Lei chiede di farsi una doccia.
Lulù lavata dall’acqua.
Lulù purificata.
Lulù l’agnello sacrificale dal quale ripulire il sangue offerto in sacrificio.
In sacrificio di cosa, poi, non lo saprà mai.
Quale colpa deve espiare?
Sotto la doccia costruita in maniera approssimativa, osserva impietrita lo scarafaggio dal carapace nero e lucido che zampetta nello sgabuzzino adibito a bagno.
Esce dalla tana di Alì quasi correndo con le lacrime che le bruciano gli occhi.
Ha paura.
Ha paura di essere rimasta incinta.
Ha paura di essersi presa l’hiv.
Ha paura di se stessa e di quello che può fare quando le ombre si impossessano di lei e le tolgono il raziocinio.
Lulù la pazza, Lulù l’incauta, Lulù la pecora nera della famiglia, ribelle solo a se stessa.
Lulù è così, si lascia scopare per scacciare la paura e poi ha paura di nuovo e si domanda perché si è lasciata scopare.
Lulù è una cagna gentile che si morde la coda.
Passa la serata in compagnia di parecchi raki, torna dal suo compagno di viaggio, Serge,  protestante valdese gentile, dolce, simpatico.
Da lui non si lascia scopare, con la gentilezza Lulù non si sa rapportare. E comunque Serge non ci ha provato neanche a farsela, la rispetta forse, più probabilmente non è attratto da lei.
Lulù non ha una grande autostima e propende per la seconda ipotesi. 
Si stordiscono di canne, lui le insegna a capire Singer, le scrive una lista di libri da leggere, discutono di politica e di soldatini di piombo dipinti a mano e decidono che il mattino dopo sarebbero ripartiti seguendo le ultime tappe  del loro  piano di viaggio.
A Kaș Lulù lascia pezzi di se stessa disseminati lungo la battigia.
Le sue mutandine leopardate, alcune perline sfilatesi da una collanina che si è rotta durante l’amplesso con Alì, un orecchino con una piuma turchese. 
Le donne ottomane, con i loro immensi veli neri, impegnate a preparare, su pietre roventi appetitosi Gözleme di prezzemolo e formaggio di capra, troveranno questi segni, questi cocci, queste schegge, questi frammenti di Lulù, disseminati sulla spiaggia .

Una canzone si spande nell’aria:

“Balla
balla signorina nella notte
nella carovana che è passata
c'eran tante collanine rotte
dalle botte
della vita.
Scappa via da questa gente consumata
dalla gabbia della madre e la puttana
c'è una porta per tornare ancora indietro
piccolina
signorina … “

A casa, in Italia, Lulù si porterà in regalo i condilomi presi da Alì.
Fortunatamente nessun’altra malattia venerea, né figli.
I colori, gli odori, i sapori della Turchia le rimarranno per sempre nel cuore.
I camini di fata, la valle di Ihlara, la spiaggia turchese, la torre di Galata, il ponte sul Bosforo, le piscine calcaree di Pamukkale, i bambini sporchi e scalzi di Kayseri con le loro bilance in mano per far pesare i turisti in cambio di poche monetine, la Moschea Blu, resteranno per l’eternità impresse sulle foto che Lulù ha fatto durante quel mese in Turchia.
Ricorderà a lungo  l’hammam di Pergamo dove un uomo risecchino come un fagiolo di cacao la massaggiò con la forza d’un lottatore di wrestling usando federe di cuscini, le nascoste grotte scavate nella roccia con le raffigurazioni bizantine a cui i musulmani avevano grattato via gli occhi.
 …. Alcune volte ci pensa, vorrebbe poter grattare via anche lei certe cose dal suo cuore, ma le rimane sempre tutto attaccato addosso per quanto ci provi a lavarsi via l’anima.
La sepolta testa di Medusa nella Cisterna Basilica di Instabul,  l’Harem con le armature dei Giannizzeri, i gioielli delle concubine del Sultano, i tralci di vite e gli involtini di riso e melanzane le ritornano in mente durante la traversata burrascosa sul ponte della nave, mentre mangia carne in scatola  nascosta dentro il sacco a pelo, di fianco al suo strano compagno di viaggio che in un mese l’ha vista distruggersi senza mai dire una parola, senza mai giudicarla, cercando di infonderle cultura e serenità.
Una foto mossa le rimane di quei volti della spiaggia di Kaș.
Ogni tanto Lulù la guarda.
Nell’istantanea Peter guarda Alì che sorride all’obbiettivo, Selma si sbraccia dietro di loro.
Lulù, sta facendo lo scatto. Ricorda che ha preparato lei l’inquadratura e ha ritratto il momento in cui tutti si stavano muovendo creando nella foto luminose strisce colorate. Una foto psichedelica d’una estate psichedelica.

Del resto ognuno è andato poi per la sua strada.

E’ una creatura strana Lulù, si dà, si concede, si lascia usare, si spreca e sorride, d’un sorriso triste e dolente.

A volte piange, ma continua a vivere, andando avanti, andando oltre.

Ayse


 

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